Il cv dei miei fallimenti
Questo *non* è un atto di autocommiserazione.
Siccome sto vivendo un periodo roseo, tra grandi opportunità e giornate piene, ho deciso che era proprio il caso di tirare le somme di questi ultimi 23 anni. La verità è che sono bloccata a casa con i miei genitori e dopo aver redatto 3 tipi diversi di curriculum, correlati da diverse esperienze, skills e foto, e averli accuratamente raggruppati in una cartella, mi mancava solo questo: il vero curriculum, l’unico che riesco a scrivere con la consapevolezza di non star ingigantendo le mie abilità. L’altra verità è che le persone attorno a me sono così stanche di sentire le mie lamentele continue che ho pensato di sfogarmi con gli amici immaginari dell’internet, consapevole che saranno tre le persone che leggeranno tutto questo, le stesse che mi sopportano offline (ciao Giacomo, Mati e boh, stupitemi). La terza – e non ultima – verità è che mi annoio e sono stanca di leggere articoli su consigli di vita e lavoro, due cose che al momento per me sono solo un ricordo (sono drammatica, concedetemelo).
Per evitare di fare un curriculum dei fallimenti lungo quattro pagine ho deciso di omettere tutti gli esperimenti amorosi e relazionali nei quali ho fallito. Non sono utili allo scopo, anche se a posteriori sono molto divertenti.
Iniziamo dal principio. Affascinata fin da piccola dalle attività creative e alla perenne ricerca del mio scopo nel mondo, il mio gioco preferito consisteva nel fare intrugli, che io chiamavo “pozioni”, da servire ai miei familiari su piatti di foglie e con contorni di fango. Il teatro degli orrori di questa attività è la casa nella quale abito tutt’ora, all’epoca in ristrutturazione, dunque il parco giochi perfetto per una bambina attiva come me. La mia carriera da chimica e/o cuoca si conclude presto in ospedale, con una terribile salmonella che mi tormenterà per dieci giorni. A posteriori penso che questo episodio indichi solo la mia profonda dedizione al lavoro, posso quasi suggerire che mi abbia aiutata a sviluppare alcune soft skills. Le mie abilità culinarie però non sono migliorate molto da allora: cito, tra le altre, la mia prima volta con la moka del caffè, quando dopo aver messo la polvere al posto dell’acqua mi sono stupita del fatto che il caffè non uscisse.
Svuotata fisicamente, ma non nello spirito, continuo lo studio dei materiali e dei loro effetti fisici spostandomi sul settore beauty: pronta a smantellare le convenzioni archetipiche alla base del make up decido che lo smalto della Lelly Kelly può essere usato come ombretto e nessuno può dirmi il contrario. Tranne il mio pediatra e mia madre, la quale inizia una campagna di terrorismo dicendomi che sarei diventata cieca e avrei dovuto mettere la benda come Capitan Uncino.
Abbandonate le aspirazioni scientifiche passo alla danza, sotto coercizione, in particolare alla danza classica prima, hip hop poi, contemporanea per concludere, perché mi piace non farmi mancare nulla. Il tutto culmina con una piccola me grassoccia che balla sopra il palco, rigorosamente in ultima fila, sulle note di “Mi piace se ti muovi” (dei Black Sabbath se non erro) vestita da – udite udite – ippopotamo. Un episodio che ha minato la mia autostima. Chiudiamo il sipario, non c’è nulla da imparare da questa storia.
Per fortuna sono sempre stata in grado di reinventarmi, come dimostra il mio primo romanzo senza titolo liberamente ispirato alla saga Fairy Oak: una sorta di storia autobiografica (giuro) fantasy.
Ero così affascinata da quell’immaginario che cercavo di riprodurlo con qualsiasi mezzo: recitavo da sola in giardino, ne riscrivevo la trama, sono addirittura approdata al disegno. Le ho tentate tutte, volevo solo sentire un accenno di quello che doveva aver provato Elisabetta Gnone mentre scriveva Fairy Oak. Insomma, volevo il successo.
Capisco subito che per ottenere il successo devo studiare, cosa in cui all’inizio non ho problemi: vado a meraviglia alle elementari e alle medie sono – almeno nella mia testa – la prima della classe.
Arrivata al liceo capisco che la strada per il successo non sarebbe stata così semplice. Questa realizzazione mi arriva sotto forma di un 3 e mezzo in greco. Nulla di irrisolvibile, nei cinque anni passati al liceo mi concentro sugli studi, tralasciando i diletti ricreativi a favore dello sviluppo della mente. In quegli anni ci sono stati degli errori di percorso, come la bocciatura all’esame di guida, dovuta al fatto che non trovai il pulsante per le quattro frecce, o il fallimento con la chitarra (non imparai nemmeno la Canzone del Sole) ma tutto sommato me la sono cavata bene.
Passiamo ai veri fallimenti (iniziano solo ora, sì), quelli che ti si insinuano nella testa, che ti porti a letto la sera e ti sussurrano nelle orecchie con una voce molto simile a quella di tua madre: “Non sei capace”. I miei preferiti insomma.
È in questa fase che i miei fallimenti sono diventati più subdoli – più bravi – fenomeno probabilmente legato al fatto che fallire da piccoli è una cosa, fallire da grandi (adulti è una parola troppo seria) ha tutto un altro gusto.
Il progetto iniziale di inseguire il successo attraverso lo studio va in fumo quando mi iscrivo all’università, il fallimento originale. Il primo anno di università lo passo a balzare le lezioni per andare a mangiare i bigoli da Bigoi e dopo sei mesi capisco che è il caso di cambiare strada, per la mia forma mentale e fisica.
Attratta dal mondo dell’arte e ispirata dalle mie abilità nel disegno *ironica* mi iscrivo a una facoltà che odio fin da subito, dove mi sforzo di creare qualcosa seguendo il motto “fake it until you make it”. I risultati sono imbarazzanti, torno a casa quasi ogni sera depressa e inacidita dal mondo dell’arte, un mondo che non capisce me e le mie potenzialità.
Seguono tre anni travagliati in cui faccio di tutto pur di non impegnarmi, dopo innumerevoli tentativi di cambiare strada sfumati nel vuoto. Un mio merito è infatti essere la studentessa che ha fatto più test per l'università in Italia: psicologia, comunicazione, beni culturali, nominatene una e io saprò dirvi com’è strutturato il test d’ingresso. Ne vado fiera.
Nel frattempo muovo i primi passi nel mondo del lavoro – del lavoro in nero si intende – per ottenere un po’ di indipendenza. Qualche traguardo raggiunto: non ho mai mandato a fanculo un cliente e non ho mai mandato a fanculo un datore di lavoro (ci sono andata vicino). Tutto questo secondo me denota grandi abilità nella gestione dei conflitti e capacità di lavorare in team.
E così arriviamo al presente. Non sono minimamente vicina al successo e spesso davanti a questa realtà mi trovo a commentare con un «Non è giusto». La verità è che sono passati diversi anni da quando sono salita sul palco vestita da ippopotamo eppure a volte mi sembra di essere ancora lì.
A questo punto qualcuno (chi?) potrebbe dire «Sì ok e i tuoi successi?» ma il succo del discorso è che da quelli non ho imparato molto. Forse aveva ragione quel saggio che disse «La vita è una virgola rosa fra le parole “oh cazzo, ho fatto una minchiata”».
Buona giornata.
Da aggiungere al cv dei fallimenti questo pezzo, liberamente ispirato al CV (of failures) di Francesco Oggiano. La differenza è che il suo è seguito da un vero curriculum (e che curriculum).